Back to top: On the Definition of Religion
Introduction
An early version of some of the contents on this website was presented to PATRES, a group of scholars in Italy, in January 2021. After the presentation, one of the members of the group, Prof. Maria Vittoria Cerutti, sent a critical note to the presenter, Dr. Jonah Lynch. With her permission, we publish the note here, followed by a response to a few crucial topics.
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A critical contribution — Prof. Cerutti
Egregio Professore,
nel ringraziarla ancora per il suo intervento e (in particolare) per la bella possibilità offertaci di scambiarci osservazioni, suggerimenti, idee (cosa non scontata), lascio un appunto su alcuni aspetti suggeritimi dalla sua relazione e dalla lettura delle pagine di Buccellati da lei cortesemente inviteci.
Le cautele metodologiche da lei esposte per quanto concerne la nozione di religione sono molto importanti e tuttavia le difficoltà che insorgono quando si consideri come questa nozione non sia di fatto universale non possono impedire — come da alcune parti si fa — la comparazione. Di fatto, nell’ambito degli studi storico-comparativi si segnala come noi non dobbiamo partire da una definizione arbitraria di religione o astratta o univoca ma da quella nozione storicamente condizionata che si è venuta a costruire lungo la storia dell’occidente cristiano e che è venuta così a indicare un complesso integrato di almeno tre aspetti, ossia quello dottrinale, quello cultuale e quello etico, che esprimono e realizzano una relazione tra il livello umano e il livello del supra e del prius. Detta nozione, oltre ad essere storicamente condizionata, è analogica, ossia la ricerca storico—comparativa mostra come tra ambiti culturali comunemente chiamati religiosi sussistano analogie ovvero somiglianze e differenze (ma non sempre le stesse). La portata analogica della nozione di religione consente — si può allora dire — la comparazione. Un esempio: la risposta alla domanda se certi ambiti — come ad esempio il buddhismo delle origini — siano o non siano religioni non potrà risolversi con un secco sì o con un secco no ma dovrà essere più articolata, ossia dovrà verificare quali sono gli aspetti di continuità e quali invece quelli di discontinuità tra — appunto — quell’ambito e ciò che noi in occidente intendiamo per religione.
Mi riferisco ora nello specifico alla prefazione al libro di Buccellati, anche se mi rendo conto che sarebbe da leggere tutto il libro per entrare meglio nelle tematiche cui qui accenno. In tale prefazione, il proporre la religione come la codifica delle interazioni con un assoluto empiricamente ignoto e del quale presupponiamo la realtà è un tentativo di dare una definizione univoca di religione e non analogica (come molti altri tentativi di dare definizioni univoche sia ostensive, ossia tali da identificare un supposto contenuto che si riproponga sempre identico a se stesso al di sotto della varietà e diversità dei contenuti e delle forme, sia funzionali, ossia tali da identificare una supposta funzione comune). La categoria di ‘assoluto’ non mi pare si presti a identificare questo supposto contenuto comune anche se si viene a precisare che essa non è una variante del termine dio, non è la affermazione di una natura ma indica la ineludibilità della sua presenza. La nozione di assoluto (da absolutus) non si presta a identificare orizzonti religiosi in cui il divino non è ‘sciolto’ dalla realtà cosmica e umana ma è profondamente (seppur non panteisticamente) coinvolto con esse, al punto che si ha il tema della necessità dell’uomo (ad es. l’uomo mesopotamico servo degli dei, ma non solo esso) in quanto attore del culti, necessari per la sussistenza degli dei stessi. E’ vero che anche in ambiti politeistici emerge in momenti storici diversi e con forme diverse la nozione di un assoluto nel senso di un divino ultimo e al di là della pluralità degli dei, ma anche questo assoluto (se così vogliamo chiamarlo) è ben diverso dall’assoluto proprio degli ambiti monoteistici, in quanto è fondamentalmente irrelato ossia privo di relazione con il livello umano. Anche la affermazione della ineludibilità della sua presenza mi pare sia indimostrabile storicamente, come pure si potrebbe dire che la ineludibilità di una presenza (per esempio la presenza della morte e del limite umano) non necessariamente sia riscontrabile solo in orizzonti religiosi. E dunque non si presta per identificare il quid distintivo del religioso.
La nozione di spiritualità, poi, cui pure fa riferimento la prefazione al testo di Buccellati,mi pare del tutto inadatta a fondare la possibilità di una comparazione e dunque non tale da risolvere i problemi che si vedono connessi all’uso del termine religione in ambito comparativo. In particolare, non soddisfa sul piano di una ricerca storica e comparativa la identificazione — come contenuta nella premessa di Buccellati — della spiritualità come di una nux originaria alla base delle diverse forme storiche di religione come culturalmente condizionate. Si afferma, infatti, nella premessa che il termine ‘spiritualità’ non va inteso in modo vago ma piuttosto “in un senso preciso, e come sia, a mio modo di vedere — così afferma Buccellati —, alla sorgente delle forme assunte dalla religione come fenomeno culturale”. In sostanza una spiritualità astorica, originaria, indifferenziata, che si differenzia nelle diverse forme religiose offerte dalla storia. Questo procedimento sembra riproporre procedimenti analoghi, seppur diversamente orientati, messi in atto da studiosi, quali ad esempio E. B. Tylor, che in piena temperie evoluzionistica e positivistica, erano alla ricerca di un elemento originario, una nux, da cui si sarebbero sviluppate (per via di evoluzione, appunto) e differenziate le religioni storiche.
Le comparazioni istituite in un approccio come quello di Buccellati sembrano spesso astoriche ossia tali da dimenticare o passare sotto silenzio il fatto che i termini o gli aspetti che si pongono in comparazione non sono mai isolabili dal contesto che li ospita che è un contesto, oltretutto, non statico ma dinamico. Un buon esempio di questa dinamicità che poi è storicità è costituito dalla nozione di creazione che entra nelle comparazioni tra mondo biblico e mondo mesopotamico. Anche la idea di creazione conosce un cammino storico — come ben si sa — e appare formalizzata in un momento ben preciso nella storia del pensiero ebraico ed è correlata alle altre caratteristiche del Dio biblico come vengono a formalizzarsi nel periodo esilico e post-esilico ossia la esclusività e la universalità del Dio di Israele.
La enfatizzazione della importanza della comparazione tra mondo biblico e mondo mesopotamico — come presente nella premessa al libro di Buccellati — al fine della comprensione della tradizione biblica, non interrottasi a differenza di quella mesopotamica, interrottasi, appare troppo condizionata dagli interessi dello studioso in questione, che sono appunto di tipo assiriologico e, per esempio, non viene a dare adeguato risalto al contatto storico tra mondo biblico e mondo zoroastriano che pur storicamente si realizzò in terra di Mesopotamia al tempo della cattività babilonese.
Dalla premessa al libro di Buccellati emerge in sostanza — mi pare — la incidenza di una prospettiva quale quella propria della antropologia religiosa (ad esempio, Ries più ancora che Eliade), una prospettiva che è altra e diversa da quella della storia comparata delle religioni, in quanto è tale — la prospettiva propria della antropologia religiosa — da avere al suo centro la nozione di homo religiosus come strutturalmente aperto al trascendente e, si direbbe, altrettanto strutturalmente mosso da quel — per usare le parole di Buccellati — “desiderio dell’assoluto, che marca e definisce due spiritualità così accomunate nell’anelito come sono estraniate nella realizzazione”. Espressioni vaghe, ‘desiderio di assoluto’, che vogliono funzionare da passepartout ma che proiettano indiscriminatamente su orizzonti religiosi vari e diversi degli aspetti che sono al massimo reperibili in determinati orizzonti religiosi ed eventualmente solo in specifici momenti della loro storia o in specifiche espressioni della stessa.
Un elemento importante — segnalato nella relazione di Jonah Lynch — mi pare essere quello della necessità da parte dello studioso di una empatia o simpatia nei confronti dell’oggetto studiato: tale accenno ci riporta a una serie di riflessioni sviluppate da studiosi (con i quali ci siamo confrontati nei nostri incontri di Patres) che si sono interrogati sui requisiti necessari allo storico per una adeguata comprensione del suo oggetto di studio. Mi riferisco in particolare alle riflessioni di H. I. Marrou, a quelle di Ch. Gnilka in suoi interventi recenti, a quelle di U. Bianchi.
Cordialmente,
Prof. Maria Vittoria Cerutti
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“Religion”
The definition of the word “religion” is a vexata quaestio in comparative religion since its inception. Some general considerations about this topic are presented in the History of the Discipline page on this site. Buccellati’s book begins on the first page with a definition of religion. Excerpts from other important works that deal with the issue of defining “religion” can be found in particular at Bottéro 1992 p. 202, Brelich 1976 p. 1 and p. 36, and Eliade 1958 p. 1. For the purposes of clarifying the point Prof. Cerutti disputes above, we also recall the fact that although a word meaning “religion” does not exist in several ancient languages, this fact does not imply that the experience we indicate with the word was lacking. Words for much less fraught generic categories, for example the noun “tree”, also do not exist in some ancient languages that only contain specific nouns for individual species of tree. Clearly, the lack of the word does not imply the lack of the experience.
Having clarified that “religion” as a word refers to an experience that may not have been indicated with a generic term in Mesopotamian civilization, we can specify the sense Buccellati intends with the term. At the beginning of When on High the Heavens…, he states that “By religion I mean the codification of the interaction with an absolute that remains empirically unknown, but is nevertheless empirically assumed. It is an absolute because our perception of things is conditioned by it in ways that are beyond our control. An empirically unknown absolute because it totally eludes all physical and tangible parameters. Unknown, but whose reality we presuppose because of the coherence with which our experience is conditioned. As a result, there is a need to develop a relationship and to interact with the source of this conditioning. This relationship is codified through a series of cultural mechanisms that are conditioned over time by vast social groups.” (p. 1)
After citing death as a main example of inevitable conditioning, Buccellati further states that “It is therefore possible to speak of a perception of the absolute even if this remains empirically unknown: perception refers to the experience of being conditioned in repeated and coherent ways. It is not the absolute as such that is reduced to the boundaries of empirical experience, but only the resulting effects. While the absolute always remains beyond our senses, and even beyond our ability to define it conceptually and analytically, we can instead define the impact of the resulting limitations. It is not, mind you, that limits as such are sufficient to establish a notion of the absolute: what is added is the perception of a focal point where limits converge coherently. For example, we accept the logical rules of discourse every time we speak to each other, and this single logical principle, which underlies all the rules, is but one aspect of the absolute. Religion is thus the codification of this polarity between the human sphere of the relative and that of the absolute.”
Ugo Bianchi, cited by Prof. Cerutti, once wrote that “Comparative study results in a ‘historical typology’ of religion. It studies religion as a “concrete universal” (not in the Hegelian sense) on the basis of a methodology that is positive and inductive, not deductive or normative. It does not aim to be systematic in the sense of nomothetic or taxonomic. Moreover, the history of religions should not reason per genus et differentiam specificam, that is, by means of ‘categories,’ as if religion ‘in general’ were a genus whose characters were wholly represented in each of the species subordinated to it, or as if religion were an essence that underlies the accidents represented by the differences inherent in the different ‘historical’ religions.” (Bianchi 1985, p. 65).
In the context of the present website, it is worth pointing out that Buccellati’s definition of religion is not simply and binarily opposed to other definitions. Rather, (analogically), alternative definitions and explanations are in any case incomplete descriptions of an overall reality. However, some are more complete than others, and alternatives can be compared through their structures. Even though the ‘real’ structure of reality remains occult, alternative versions or descriptions of that reality may be made explicit, and compared on the basis of their structures. This approach comes close to what physical science intends by the definition of ‘laws’, which are concisely and mathematically described regularities in the behavior of physical systems, but which do not have normative character. Rather, they are analogically true. For instance, the ‘truth’ of Newton’s account of gravity is improved by the more precise ‘truth’ of Einstein’s account. Both are formulated as laws, but one is more precise (and unwieldy) than the other. This is the character of a map, which as it gains precision, it also loses usability. A completely precise map, as has often been pointed out, would cease to be useful because it would simply be a copy of the reality it was meant to model. In a similar way, a completely precise definition of “religion” would serve no general purpose, because it would coincide with one or another historical experience.
It would seem that on this point Buccellati and Cerutti (and Bianchi) ultimately agree. The main difference seems to be represented by the understanding of the term “absolute”.
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